AMICIZIA TRA FRANCESCO DE SANCTIS ED ERRICO AMANTE
« Avevo stretto amicizia con Errico Amante, che abitava in un piccolo quartierino a Porta Medina insieme con suo fratello. Egli era studente di legge, aveva fatto buoni studii di diritto romano, conosceva assai bene il latino e scriveva l’italiano latinamente. Il suo autore era G. B. Vico: gli aveva fatta molta impressione quel suo opuscolo sull’antica sapienza italica. Vedeva l’Italia in Roma; sembrava un antico romano italianizzato. Parlava, come scriveva, alla maniera di Tacito, breve e reciso; era ingenuo e sincero ne’ suoi sentimenti. Ammirava tutto ciò ch’è grande e forte; sognava il risorgimento della gente latina, libertà, gloria, grandezza, giustizia. Odiava plebe e preti; c’era in lui anima fiera di patrizio [1]. Lo spirito di antichità avea lasciato orme profonde in quello spirito giovanile: que’ sentimenti non gli venivano da un’ammirazione classica o rettorica, ma erano connaturati con lui, fatti sua carne e suo sangue.
Non mi ricordo come ci vedemmo e come ci conoscemmo; fatto è che nacque tra noi quella rara comunione di anime che non si rompe se non per morte. A me parevano molto esagerate le sue opinioni; ma quella sua bontà e sincerità mi vinceva, e in quelle sue stesse esagerazioni trovavo una grandezza morale e una caldezza di patriottismo, che mi destavano ammirazione. Andavo spesso in casa sua, e mi ci sentivo più tranquillo, più disposto al lavoro; gli parlavo de’ miei studi, del marchese Puoti. Egli avea poca inclinazione alle cose letterarie; quella lingua ferrea di Vico gli piaceva più che tutti i lisci e gli ornamenti; non capiva a che fosse buona la poesia. Pure la mia coltura letteraria, la mia varia erudizione, la sincerità delle mie opinioni e de’ miei sentimenti, la vivacità dell’ingegno e della parola me lo tenevano legato. In certi momenti che avevo nel core qualche puntura, mi sentivo alleggerire sfogandomi con lui. Presto divenne il mio amico intimo e confidente. Gli volevo leggere la mia tragedia: ma non osai, sapendo in quanto dispregio avesse poeti, frati e santi. Era in lui più virilità che tenerezza; io capivo istintivamente che non potea piacergli quel lirismo sentimentale di Sant’ Alessio. Non so che gusto ci è a leggere questi frati Guido e frati Cavalca, mi disse una volta. La differenza di opinioni e di caratteri generava calde discussioni che stringevano ancora più la nostra amicizia» [2].
LA VITA NELLA STESSA STANZA
Ne’ conflitti di famiglia tra zii (durante il colera scoppiato a Napoli) e prodotti da interessi, occorrevano sfoghi e capii espiatorii «e se la pigliavano con me che m’ ero incocciato ad abitare con Enrico Amante». Egli finì proprio, cambiando casa, col seguitare come prima. « Giovannino (il cugino) andò in casa dì zia Marianna ; io da Enrico Amante a San Potito, in un secondo piano : al primo piano abitava un tal Luigi Isernia, un avvocato amico di casa Puoti…. Il secondo palazzo di là dal quartiere, dove erano allora accasermati gli svizzeri, era quello in cui Enrico ed io prendemmo stanza. Al secondo piano era un gran terrazzo, con frequenti spaccature impeciate. Su di una parte di questo terrazzo era stata improvvisata una casetta di quattro stanze e una cucina, piena d’ aria e di luce, che a noi parve una regia. Zio Carlo aveva dato i mobili di casa tutti a Giovannino, e a stento avevo potuto impetrare un letto. Con quello m’impossessai d’una stanza. In un’ altra s’installò Enrico col suo letto e con alcuni vecchi mobili. Un vecchio divano con quattro sedie sdrucite decoravano il nostro salotto. A dritta veniva uno stanzone immenso, con una gran finestra in fondo, uscito pur allora dalle mani del fabbricatore, con le mura bianche di calce, e col tetto non incartato e col pavimento non mattonato. Là, entrando, alla dritta era un piccolo tavolino pieno di. carte e di libri, ch’io chiamava una scrivania, e dinanzi era una sedia di paglia, sulla quale, quando mi sedevo con la penna in mano e con gli occhi al tetto irradiato di sole, parevo un re, il re di quel camerone. Spesso vi andavo passeggiando in lungo e in largo, tutto a caccia delle idee e di frasi, e talora acchiappando mosche e allargandomi sul terrazzo, quasi 1′ aria mancasse ai voli della mia immaginazione. Quel camerone oggi non v’è più: so ne sarà cavato un par di stanze eleganti; ma io non posso pensarci senza tenerezza e mi par che con esso se ne sia andata una parte della mia esistenza. Là per la prima volta io mi sentii chez de moi, dando libero corso alle mie meditazioni ed alle mie immaginazioni. Errico ed io eravamo due studenti, entrati pure allora nel pieno possesso di noi”. [3]
[1] Quest’ultimo giudizio, che potrebbe iu realtà non rendere esattamente il carattere della persona, deve essere intesa nel suo significato esatto. L’odio dell’Amante era per la plebe detta Lazzaronismo, asservita al potere ed alla superstizione, e dell’uno e dell’altra erano strumenti molti preti, per tale rispetto detestati dall’Amante. Questi del resto fu e si mostrò democratico nell’anima, nella forma, nelle aspirazioni ed in ogni manifestazione della vita.
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