Il padre di Gesmundo, Nicolò, era nato a Terlizzi nel 1867. Prima agricoltore, poi proprietario terriero, ebbe dalla moglie, Raffaella Vendola, sei figli. Gesmundo era il più giovane, essendo nato il 20 novembre 1908, alle ore sette. Tre anni dopo, alla giovane età di trentanove anni, la madre moriva, lasciando Gioacchino piccolo orfano di due anni e otto mesi. Le due sorelle erano casalinghe, i tre fratelli operari. Egli fu l’unico a voler studiare, con l’aiuto dei fratelli ed a prezzo di duri sacrifici. Dopo altri quattro anni, il 3 giugno 1914, morì anche il papà, a quarantasette anni. E’ chiara a questo punto la tragedia familiare dei Gesmundo, tragedia che avrebbe segnato il carattere di Gioacchino. Riuscì a studiare, sia pure con difficoltà. Dopo qualche insuccesso nella scuola tecnica, l’unica scola postelementare esistente nel paese, proseguì gli studi presso il “Reale Istituto Magistrale di Bari, dove fu discepolo caro ad un illustre docente e filosofo, Giovanni Modugno[1]. Conseguì il diploma magistrale nella sessione estiva del 1928 e subito si trasferì a Roma per l’insegnamento. Negli anni scolastici 1928/29 e 1929/30 fu maestro nella scuola elementare di Sette Camini. Insegnò successivamente nella scuola elementare diTor Sapienza, negli anni sc. 1930/31 1 1931/32, quando questo istituto era intitolato ad Arnaldo Mussolini. Sempre nel 1928 si era iscritto all’Istituto Superiore di Magistero, dove eminenti professori furono colpiti dalla serietà del giovane e dalla vivacità del suo ingegno. In particolare il rapporto di stima si stabilì con lo storico prof.Guido De Ruggiero, col pedagogista Lucio Lombardo Radice, e con il Prof. Pietro Silva, che più tardi lo vorrà come assistente.
L’insegnamento al Liceo Classico “Vitruvio” di Formia: Gesmundo venne a Formia nel 1932. Proveniva da Roma per insegnare “Storia e filosofia”. Sin dalle prime lezioni manifestò una sicura capacità di insegnare e di comunicare. “Ma la cosa che, gradatamente, doveva colpirci, in una maniera impressionante, più di tutte le altre, era questa: egli era lì non per un atto di routine o per una formalità burocratica, ma per insegnarci quello che era indispensabile fare, per costruire un domani diverso, per noi stessi e per gli altri. Questa era la vera ragione della sua presenza in mezzo a noi; suscitò in tutti un affetto e un rispetto, veramente profondi, verso di lui” (Pietro Ingrao). Se si considera il clima di conformismo ufficiale che come una cappa nebbiosa si stendeva, in quegli anni, sulla società italiana, isolandola dal grande dibattito culturale europeo, lascia senza fiato il coraggio e l’audacia di questo insegnante che non rinunciava ad esercitare il suo ruolo che era quella di aprire le menti dei suoi giovani allievi, avviandoli ad una maturità libera e consapevole. Faceva leggere Croce e Salvemini, pur sapendo che erano invisi al regime. La matrice culturale di Gesmundo era certamente idealistica, con elementi di originalità che derivavano dalla lezione di De Ruggero, molto più attento di Croce a percepire l’importanza dei fenomeni sociali, e quella di Salvemini, che rafforzava un dato del suo carattere, cioè una forte tensione morale, una spinta ad impegnarsi concretamente per il superamento delle ingiustizie sociali. Dopo una breve parentesi al Liceo Classico di Viterbo, ottenne la nomina come docente di Storia, Filosofia ed Economia presso il Liceo Scientifico “Cavour” di Roma. Qui, per le sue qualità umane e culturali, si fece apprezzare e ricoprì la carica di vicepreside. Si affermò ben presto negli ambienti culturali della capitale per le ” sue qualità di studioso, per la sua vasta cultura, per la profondità dei suoi pensieri, per la generosità del suo carattere. Come i giovani sono la parte più preziosa dell’umanità, egli vi si dedicò tutto e cercò di illuminarne le menti con la parola convincente, con la profonda cultura, col fascino delle grandi verità; e siccome l’insegnamento tra i banchi non bastava alla sua opera, egli aprì la sua casa ai giovani – con la scusa dell’insegnamento privato – e li ospitò, li aiutò, donò libri a chi non poteva averne; ma soprattutto parlò con loro di nobili e alte cose, di libertà, di giustizia sociale, di amore per l’umanità. Dice di lui un alunno:“Professore alle prime armi, molto buono e tollerante, sopportava la confusione; molto didattico, si serviva di appunti, non seguiva il libro. Gli piaceva la compagnia, si vedeva con gli alunni nelle ore extrascolastiche. Non parlava delle sue tendenze politiche o filosofiche. Di solito portava al posto della cravatta un fiocco nero, simbolo degli anarchici, ma che lui fosse un anarchico era solo un’impressione priva di fondamento“. (Davide Oddi)[2].
Con l’aggravarsi della situazione politica, con la presenza delle truppe tedesche che opprimevano Roma in una cappa pesante e insopportabile, Gesmundo sente che è arrivato il momento dell’azione, si impegna nella lotta clandestina e si iscrive, nel 1943, al Partito Comunista. Resta il problema di capire in qual misura entro questo sistema di pensiero sia entrata, se effettivamente è entrata, la componente marxista. “Come egli ebbe a dire, era arrivato al comunismo per la via del cuore, e non per quella della ragione”. Ricorda Pietro Ingrao: “Ritrovai Gesmundo a Roma, mentre per tutta l’Europa si scatenava la ferocia delle armate hitleriane. Un pomeriggio andai a trovarlo e, quella volta, fui io ad esporre delle proposte su come ci si dovesse organizzare per resistere al fascismo ed al nazismo. Ricordo che, mentre parlavo, egli domandava spesso: “Ma questi giovani, ce la faranno ?”. Gli risposi che noi, semplicemente avevamo ripreso e portato alle estreme conseguenze, proprio quel discorso che, anni prima, egli aveva iniziato presso il Liceo di Formia“. Siccome Gesmundo aveva sofferto di un certo isolamento, accettò le sollecitazioni ed entrò nella organizzazione clandestina. Antifascista militante – componente dei GAP romani – diresse come redattore capo l’Unità clandestina. Viveva in un appartamento a Via Licia, n. 76; questo appartamento divenne un luogo di organizzazione della lotta armata e, per un breve periodo, sede della redazione clandestina dell’”Unità”, che aveva tra i redattori Renato Guttuso.
E’ strano e, nello stesso tempo, confortante constatare come, nel momento in cui i grandi gerarchi del regime, responsabili di quello sfacelo sociale e politico, fuggivano al Sud, due uomini dello stesso Comune del Sud, Don Pietro Pappagallo e Gioacchino Gesmundo, rimanevano a Roma e si impegnavano nella lotta di resistenza, tessendo insieme la trama di tante azioni di lotta e di salvataggio dei perseguitati. Proprio in quell’appartamento Gesmundo fu scoperto ed arrestato dalle SS il 29 gennaio 1944. “Eseguirono il primo interrogatorio a base di botte e di violenze per fargli confessare la sua appartenenza alla Resistenza. Invano. Perquisirono tutta la casa, buttando all’aria i suoi preziosi libri, i suoi scritti, rompendo e sfasciando sotto i suoi occhi oggetti a lui cari“[3]. Lo trattennero a casa per diverse ore, allo scopo di arrestare tutti coloro che avessero bussato alla sua porta. Fu così che vennero arrestate due donne, Maria Teresa Regard e Lina Strozzi. Condotto a Via Tasso, fu orrendamente torturato per due mesi, nella cella n. 13. In un corridoio di quel luogo di martirio, si incontrò per l’ultima volta, con un suo grande amico e compaesano, il sacerdote don Pietro Pappagallo. Un testimone riferisce che “lo sguardo così cristiano del prete terlizzese si smarrì nella contemplazione del volto di Gesmundo, tumefatto dalle percosse, disfatto dalle torture dei carnefici, imbestialiti dalla eroica ostinazione del professore a non parlare, a non fare i nomi dei compagni di lotta“. Un suo giovane allievo, preso nelle stessa rete dalla polizia e portato nello stesso carcere, così scrive: “Il professore si addossò ogni responsabilità ed attese con serena rassegnazione il giorno fatale, sopportando da eroe tutti i martìri, senza che mai un nome affiorasse alle labbra, neppure quando gli aguzzini gli bruciarono nelle orecchie stoppini imbevuti di benzina. Il suo fermo silenzio portò alla liberazione e alla salvezza un centinaio di compagni“.
[1] G. Modugno, F.W. Förster e la crisi dell’anima contemporanea, Bari, Laterza, 1931, pagg. 300.
[2] ibidem
[3] Carte del processo.
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