Amante e Gigante a favore del plebiscito

Anno 1860.
  “Due servigi di Errico Amante alla Patria” 
Amante e Gigante a favore del plebiscito
[1]

Ed in quel torno di tempo, al cadere del 1860, rendeva egli due segnalati servigi alla Patria, che formano la più im­portante pagina della sua vita.

Era ammiratore delle gesta di Garibaldi e del patriotti­smo di Mazzini, ma gli importava sopra tutti e tutto l’unifica­zione, d’Italia. Mazzini a Napoli si agitava per la Costituente; Garibaldi tentennava e chiamava fra altri Conforti, non fatto certo per saldargli meglio 1′animo. L’Amante coi suoi amici era recisamente per l’annessione senza chiaroscuri. Ci volea dappresso a Garibaldi chi lo spingesse al Plebiscito e fortifi­casse pure il Conforti. Si fece venire da Avellino De Sanctis, che vi era governatore e che entrò cosi nella nuova ammini­strazione, chiamata o a rovinare il Paese o a crear 1′edificio dell’ unità Italiana. L’Amante, presi gli accordi con i suoi amici Marvasi, Barci ed altri, e forse ci era pure il Villari, compì l’ufficio di persuadere De Sanctis a sostenere il Plebi­scito ad ogni costo. A Napoli, in una casa alla Carità, si rac­colsero in lungo colloquio De Sanctis e Conforti, e ne usci per risultamento, conditio sine qua non, il Plebiscito, che Ga­ribaldi, smettendo gli equivoci, accettò.

Bisognava pur compiere qualche altro grave fatto: occu­pare senza indugi, a non far cadere il plebiscito, con milizie italiane (piemontesi) le provincie meridionali e legittimare il fatto davanti la sospettosa ed irrequieta diplomazia europea, massime russa e prussiana: bisognava che le provincie meri­dionali chiedessero espressamente l’ingresso dell’ esercito re­gio italiano, a salvaguardia ben inteso dell’ordine. E vi era estrema necessità, perché malgrado il Plebiscito, si cospirava in senso contrario. Di che addatosi 1′Amante per certe rive­lazioni, -che si ebbe dal Pizzi, presi concerti attivi con R. Gigante, andati assieme da un illustre personaggio, si dié la primissima spinta agli indirizzi meridionali e si andò sino in fondo ; sparvero Napoli e Palermo, e sottentrò loro 1′augusto nome d’Italia. Furon due avvenimenti, nei quali il nome dell’Amante entra tra i fattori principali dell’Unità d’Italia. Altri, che poi signoreggiarono, attendeano a far cause ed a far quattrini.

Dopo il 1860 l’Amante rientrò nella magistratura, chiama­tovi da due insigni uomini, Pisanelli e De Filippo, a’ servigi allora di Garibaldi.



[1] Bruto Amante e Romolo Bianchi, FONDI IN CAMPANIA, Ermanno Loescher & C°, Roma 1903, pag. 371.

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La nascita del figlio Bruto

Errico Amante: la nascita del figlio Bruto

Il secondo processo politico, che gli toccò, fu quello così stranamente detto de’ Pugnalatori, pel quale fu tradotto con Francesco De Sanctis e molti gentiluomini napoletani nelle segrete del Castello dell’ Ovo[1].

Gli era allora, il dì 11 marzo 1852, nato un bambino (tenuto a battesimo per procura dal De Sanctis ancora chiuso nel Ca­stello dell’ Ovo), al quale era stato posto il nome di Bruto,come protesta a’ tempi, quantunque la polizia, dopo inutili divieti, avesse voluto che questo nome fosse almeno collocato dopo un altro che appartenesse al calendario de’ santi!

L’Amante andò vagando per le vie di Napoli tre giorni senza trovare una casa che gli desse asilo e portando per le strade moglie e figlio poppante, a mo di zingari, finche tra­dotto avanti al Governa, fu mandato al domicilio forzoso nel luogo, onde era evaso quando tornò da Venezia, con una carta di passaggio, contenente l’intimazione di presentarsi fra tre giorni all’Intendente della Provincia di Caserta, il quale, alla sua volta gli rilasciava il 20 marzo 1853 altro «bono per portarsi al Sotto Intendente di Gaeta e Mola (Caracciolo) e quindi recarsi subito a Fondi ed ivi attendere ulteriori disposizioni ».

E quando 1′Amante comparve avanti al Prefetto di Ca­serta, de Marco, ci fu un incidente comico-tragico. Annunziatosi pel giudice Amante, quel Prefetto, il quale non ancor sapea che roba ci fosse, corse a riceverlo. Ma appena presen­tatagli  dall’Amante la carta di passaggio, mutò tosto contegno: fatto il viso feroce, gli disse di attendere i suoi ordini”.[2]


[1]  E dopo le fasi lunghe di questa processura, tratto fuori di carcere, non poté neppur ottenere di esercitar a Napoli la professione di Avvocato dal feroce Longobardi, Ministro di Giustizia, mentre non si trattava che di un tramutamento da S. Maria a Napoli giusta il seguente documento: « 11 Can­celliere della Corte Criminale rii Terra di Lavoro certifica che avendo osser­vato l’Albo de’ Patrocinatori addetti ad esercitare tali funzioni presso questo suddetto collegio, ha rilevato che sotto il numero d’ordine 135 vi sia annove­rato il Sig. Errico Amante nel di 24 Aprile 1849.”

[2] Bruto Amante e Romolo Bianchi, FONDI IN CAMPANIA, Loescher, Roma, 1903, pag. 370.

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Amicizia tra De Sanctis ed Errico Amante.

AMICIZIA TRA FRANCESCO DE SANCTIS ED  ERRICO  AMANTE

« Avevo stretto amicizia con Errico Amante, che abitava in un piccolo quartierino a Porta Medina insieme con suo fratello. Egli era studente di legge, aveva fatto buoni studii di diritto romano, conosceva assai bene il latino e scriveva l’italiano latinamente. Il suo autore era G. B. Vico: gli aveva fatta molta impressione quel suo opuscolo sull’antica sapienza italica. Vedeva l’Italia in Roma; sembrava un antico romano italianizzato. Parlava, come scriveva, alla maniera di Tacito, breve e reciso; era ingenuo e sincero ne’ suoi sentimenti. Am­mirava tutto ciò ch’è grande e forte; sognava il risorgimento della gente latina, libertà, gloria, grandezza, giustizia. Odiava plebe e preti; c’era in lui anima fiera di patrizio [1]. Lo spi­rito di antichità avea lasciato orme profonde in quello spi­rito giovanile: que’ sentimenti non gli venivano da un’ammi­razione classica o rettorica, ma erano connaturati con lui, fatti sua carne e suo sangue.

Non mi ricordo come ci vedemmo e come ci conoscemmo; fatto è che nacque tra noi quella rara comunione di anime che non si rompe se non per morte. A me parevano molto esagerate le sue opinioni; ma quella sua bontà e sincerità mi vinceva, e in quelle sue stesse esagera­zioni trovavo una grandezza morale e una caldezza di pa­triottismo, che mi destavano ammirazione. Andavo spesso in casa sua, e mi ci sentivo più tranquillo, più disposto al la­voro; gli parlavo de’ miei studi, del marchese Puoti. Egli avea poca inclinazione alle cose letterarie; quella lingua ferrea di Vico gli piaceva più che tutti i lisci e gli ornamenti; non capiva a che fosse buona la poesia. Pure la mia coltura letteraria, la mia varia erudizione, la sincerità delle mie opi­nioni e de’ miei sentimenti, la vivacità dell’ingegno e della parola me lo tenevano legato. In certi momenti che avevo nel core qualche puntura, mi sentivo alleggerire sfogandomi con lui. Presto divenne il mio amico intimo e confidente. Gli volevo leggere la mia tragedia: ma non osai, sapendo in quan­to  dispregio avesse poeti, frati e santi. Era in lui più virilità che tenerezza; io capivo istintivamente che non potea piacer­gli quel lirismo sentimentale di Sant’ Alessio. Non so che gusto ci è a leggere questi frati Guido e frati Cavalca, mi disse una volta. La differenza di opinioni e di caratteri gene­rava calde discussioni che stringevano ancora più la nostra amicizia» [2].

LA VITA NELLA STESSA STANZA

Ne’ conflitti di famiglia tra zii (durante il colera scoppiato a Napoli) e prodotti da interessi, occorrevano sfoghi e capii espiatorii «e se la pigliavano con me che m’ ero incocciato ad abitare con Enrico Amante». Egli finì proprio, cam­biando casa, col seguitare come prima. « Giovannino (il cugi­no) andò in casa dì zia Marianna ; io da Enrico Amante a San Potito, in un secondo piano : al primo piano abitava un tal Luigi Isernia, un avvocato amico di casa Puoti…. Il se­condo palazzo di là dal quartiere, dove erano allora accaser­mati gli svizzeri, era quello in cui Enrico ed io prendemmo stanza. Al secondo piano era un gran terrazzo, con frequenti spaccature impeciate. Su di una parte di questo terrazzo era stata improvvisata una casetta di quattro stanze e una cucina, piena d’ aria e di luce, che a noi parve una regia. Zio Carlo aveva dato i mobili di casa tutti a Giovannino, e a stento avevo potuto impetrare un letto. Con quello m’impossessai d’una stanza. In un’ altra s’installò Enrico col suo letto e con alcuni vecchi mobili. Un vecchio divano con quattro se­die sdrucite decoravano il nostro salotto. A dritta veniva uno stanzone immenso, con una gran finestra in fondo, uscito pur allora dalle mani del fabbricatore, con le mura bianche di calce, e col tetto non incartato e col pavimento non mattonato. Là, entrando, alla dritta era un piccolo tavolino pieno di. carte e di libri, ch’io chiamava una scrivania, e dinanzi era una sedia di paglia, sulla quale, quando mi sedevo con la penna in mano e con gli occhi al tetto irradiato di sole, pa­revo un re, il re di quel camerone. Spesso vi andavo passeg­giando in lungo e in largo, tutto a caccia delle idee e di frasi, e talora acchiappando mosche e allargandomi sul terrazzo, quasi 1′ aria mancasse ai voli della mia immaginazione. Quel camerone oggi non v’è più: so ne sarà cavato un par di stanze eleganti; ma io non posso pensarci senza tenerezza e mi par che con esso se ne sia andata una parte della mia esistenza. Là per la prima volta io mi sentii chez de moi, dando libero corso alle mie meditazioni ed alle mie immaginazioni. Errico ed io eravamo due studenti, entrati pure allora nel pieno possesso di noi”. [3]

 


[1] Quest’ultimo giudizio, che potrebbe iu realtà non rendere esattamente il carattere della persona, deve essere intesa nel suo significato esatto. L’odio dell’Amante era per la plebe detta Lazzaronismo, asservita al potere ed alla superstizione, e dell’uno e dell’altra erano strumenti molti preti, per tale ri­spetto detestati dall’Amante. Questi del resto fu e si mostrò democratico nell’anima, nella forma, nelle aspirazioni ed in ogni manifestazione della vita.

[2] FRANCESCO DE SANCTIS, La giovinezza, frammento autobiografico, pubblicato da Pasquale Villari, Napoli, A. Moramo 1889, p. 97.-

[3] FRANCESCO DE SANCTIS, La giovinezza, frammento autobiografico, pubblicato da Pasquale Villari, Napoli, A. Moramo 1889, p. 119 e seg.-

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